mi ricordi Carlo Scarpa
Era laboratorio 1.
La mia villa a petali si tramutò in incastri di rettangoli razionalisti.
All’esame arrivò quel paragone inatteso del prof. con un personaggio che ancora non conoscevo.
Non andava di moda e nessun altro docente lo citò mai in seguito, chissà forse perché era un architetto che non si era mai laureato, o forse perché era Veneziano e non Romano, o per i suoi legami con il Giappone.
Vedere una sua opera dal vivo a Verona, a due passi dall’Arena è stata una lezione a cielo aperto di architettura e design.
Ogni elemento in facciata ha un peso ben calibrato in un gioco di equilibri tra materiali e forme, disegni grafici e plastici, pieni e vuoti.
È l’edificio sede del Banco Popolare di Verona in piazza Nogara, incastonato tra due preesistenze più classiche: le linee di congiunzione tra Scarpa e l’esistente sono estremamente raffinate, per materiali e geometrie.
Scarpa sceglie di dare la precedenza a chi esisteva già, così sono gli aggetti di cornici e marcapiani a dare il ritmo al nuovo.
In un isolato storico, tra due scogliere, si incastona la sua facciata: un quadro reso materico a tal punto che può essere vissuto.
Lì vicino c’è la piazza dell’Arena, un pullulare di gente ai bar, tutti fronte antichità, a far foto.
Lui invece solo, in una piazza senza negozi, ad uso parcheggio.
Ecco mi chiedo perché la nostra cultura si sia ferma all’Ante Cristo?
Non mi fraintendete, amo quel periodo storico e tutti gli architetti l’hanno da sempre studiato, perché solo così si creano gli anelli di congiunzione tra ciò che era e il divenire.
Forse senza quegli studi anche Scapa non avrebbe ascoltato il ritmo delle preesistenze.
Credo però che in un mondo sempre più dedito ad un turismo di massa, imparare a soffermarsi anche sulla facciata di un palazzo “moderno” possa insegnare rispetto, armonia, equilibrio di forme diverse; tutti concetti che si possono applicare non solo all’architettura ma anche alla vita quotidiana.
Comprendere una facciata come questa può far elevare lo spirito e lo sguardo dell’osservatore, che, tornato a casa, può riconoscere il meglio nell’oggi, trovare un legame con il proprio tempo.
Arrivo ad un concetto estremo: se ciò che ci insegnano a vedere sono solo ruderi del passato, sconnessi dal nostro oggi perché non riproponibili, cosa ci portiamo a casa? Si, la storia, la straordinaria bellezza che fu, ma per i non addetti ai lavori resta una mera parentesi culturale, un “ci sono stato”.
Lo sguardo si educa alla “rovina” e il decadimento del resto della città appare normale.
L’Arena è un organismo edilizio ancora vissuto, ma quanti resti sono mummie a cielo aperto, considerate per lo più (specialmente a Roma), l’ennesimo coccio trovato-trafugato-reinterrato?
Vorrei la stessa folla dell’Arena al posto del parcheggio davanti a Carlo Scarpa.
Vorrei guide che ne spieghino a più lingue i legami geometrici e culturali.
Vorrei sguardi nuovi dopo quelle visite, capaci di apprezzare il design, critici nei confronti di nuove architetture d’effetto ma prive di contenuti.
Vorrei sguardi liberi!
Quella mattina, lontana da una folla oceanica, c’ero solo io a soffermarmi e cogliere sfumature, in quel parcheggio, davanti a Carlo Scarpa e pensai a quell’unico professore, in tanti anni, che parlò di lui.